Il Socrate delirante del Wieland e l’Ortis (1959)

W. Binni, Il «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis», «La Rassegna della letteratura italiana», a. 63°, serie VII, n. 2, Firenze, maggio-agosto 1959, pp. 219-234; poi raccolto in Id., Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963, pp. 211-237 (edizioni successive: 1967, 1976), e in Id., Ugo Foscolo. Storia e poesia cit., pp. 121-145.

Il «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis»

Non mi consta che, nella vasta esplorazione (vasta, ma a volte cervellotica e alla fine non pienamente esauriente[1]) delle letture foscoliane di testi settecenteschi comunque utilizzati nella composizione dell’Ortis, si sia mai calcolata e valutata la possibile presenza di opere del Wieland[2] sulla cui «fortuna» in Italia manca del resto uno studio che potrebbe risultare tutt’altro che inutile nella ricostruzione della cultura letteraria e ideologica dell’ultimo Settecento italiano. Ché certo il fecondissimo scrittore tedesco (sulla cui importanza e sul cui valore ha recentemente insistito, anche con qualche forzatura, la massiccia monografia del Sengle[3]) poteva offrire ai letterati italiani molteplici motivi di interesse e di stimolo in sede di gusto e di discussione ideologica, entro un vasto raggio di cultura e di poetica, fra posizioni illuministiche divulgate e discusse in varie forme di saggio, di dialogo, di romanzo a sfondo archeologico-pedagogico, a temi e moduli stilistici che da una ricca base illuministico-rococò svariano in direzione del patetico preromantico e dell’eleganza e spiritualità neoclassica. E, se agli Italiani doveva sfuggire il senso generale di un’opera cosí vasta e viva soprattutto entro la storia del difficile dialogo della cultura e della letteratura tedesca di secondo Settecento e di primo Ottocento (classicismo con Gottsched, scuola svizzera, Klopstock, versioni del rococò fra Uz e Hagedorn, Lessing, Sturm und Drang, e le successive posizioni di Goethe e Schiller), essi non mancarono di ammirare singole opere del Wieland e di tradurne alcune fra le piú notevoli, in una scelta spesso assai significativa per gli interessi prevalentemente etico-letterari dell’epoca preromantico-neoclassica.

Attenzione di letture e di giudizi (Cesarotti o Pilati[4]), che si protrae sino al Leopardi, il quale, in una nota dello Zibaldone, del 1822, conferma, in un particolare angolo di visuale, la simpatia che per Wieland poterono avere scrittori dell’epoca illuministica vera e propria e scrittori di un tempo piú tardo, ma ricco di precedenti illuministici, e particolarmente interessati ad un tipo di divulgazione filosofica letterariamente scaltrita e brillante, arricchita da un incontro efficace di sensibilità e di razionalismo nella diagnosi e nella discussione sulla natura e la situazione umana: «I tedeschi incontrano molto meglio e molto piú spesso nel vero quando scherzano o quando parlano con una certa leggerezza e guardano le cose in superficie che quando ragionano; e questo o quel romanzo di Wieland contiene un maggior numero di verità solide, o nuove, o nuovamente dedotte, o nuovamente considerate, sviluppate ed espresse, anche di genere astratto, che non ne contiene la Critica della ragion pura di Kant»[5].

Mentre un piú immediato riconoscimento dell’interesse italiano per Wieland è costituito dalle traduzioni (spesso traduzioni di traduzioni francesi) che offrirebbero pure un interessante materiale di studio e per la poetica del tradurre settecentesca e per la valutazione dell’assimilazione italiana di aspetti di una tematica assai complessa che veniva ad aggiungersi ad altre e piú importanti assimilazioni nello sviluppo preromantico e neoclassico (specie nell’incontro del filosofo e poeta delle grazie, dell’elogiatore delle anime belle, del sottile «analitico del cuore»).

Fra le traduzioni uscite prima del 1798[6] (l’anno dell’Ortis bolognese) spicca per l’efficacia del testo italiano e per l’innegabile vivacità dell’originale (e per la sostanziale rappresentatività delle migliori qualità del Wieland prosatore) quella del Σωκράτης μαινόμενος oder Dialoge des Diogenes von Sinope[7], pubblicata col titolo Socrate delirante o sia Dialoghi di Diogene di Sinope a Venezia nel 1781, con falso luogo di edizione, Colonia, ad opera di un traduttore anonimo[8].

Questo romanzo, che lo stesso Wieland considerava una delle sue opere migliori[9], e che nasceva in un momento di singolare fervore creativo e combattivo, fra attacco ad una società frivola ed ipocrita ed enucleazione di un ideale di vita fra rousseauiano e scettico[10] di individualistica felicità razionalnaturale (indipendenza, autosufficienza basata su di una heitere Armut [serena povertà] e sull’assoluta fedeltà alla natura e alla verità in opposizione ad ogni pregiudizio di casta e di nazione[11]) disponendosi in una fresca e pungente dimensione stilistica rococò-illuministica ricca di Kolorit e di humour, in un ritmo di narrazione rapida e frizzante con aperture non incoerenti ad indugi edonistico-patetici, era effettivamente ben adatto, anche nella traduzione italiana, cosí fedele e congeniale, a interessare un lettore come il giovane Foscolo. E ad inserirsi efficacemente nella sua piú immediata riserva di temi, figure e moduli narrativi utilizzabili specie nella situazione dell’Ortis 1798 in cui i piú personali e brucianti motivi romantici (che avrebbero poi piú energicamente dominato la nuova redazione sino a farne un libro non piú accettabile da parte di un «preromantico» come il Cesarotti[12]) si compongono e si smussano a volte entro una cultura letteraria ancora legata a forme complesse e confuse di sensibilità e di gusto fra sensiblerie edonistica e lacrimosa e impeti sturmundranghiani, fra classicismo edonistico rococò e tensione alla bellezza neoclassica, fra abbandono sentimentale anche ingenuo e incipiente controllo ironico.

Il libro entrò chiaramente nel cerchio piú stretto delle letture del giovane Foscolo e, se pure questi non lo ricordò né nel Piano di studi né nell’elenco di romanzi che Jacopo lascia a Teresa nella lettera d’addio dell’Ortis bolognese[13] (né del resto il nome ed opere del Wieland son mai ricordati in nessun altro scritto foscoliano), esso fu ben presente, proprio nella versione ricordata, all’attenzione del Foscolo mentre componeva il primo Ortis ed è proprio quel «piccolo libro» o «libricciuolo» (come vien chiamato rispettivamente nell’Ortis bolognese e in quello milanese) che Teresa (nella lettera XXVI dell’11 aprile) tiene semichiuso in mano e che Jacopo poi prende e apre «a caso» leggendone il noto passo elegiaco di Gliceria, di cui il Vaccalluzzo dichiarava di non essere riuscito a sapere da quale romanzo fosse tratto[14].

Quel compianto sulla tenera Gliceria, la cui lettura cosí ben si inserisce nella Stimmung di patetico abbandono della lettura (consonando anche con il tono fondamentale della sterniana storia di Lauretta) ad intensificare il sentimentalismo addensatosi nella situazione e nella scena (concorso della natura turbata dal temporale e della languida commozione per «i poveri arbuscelli» stroncati dal vento tempestoso) sino alla sopraffazione delle lacrime di Teresa provocate dal ritorno di Jacopo sul punto piú intensamente elegiaco («Tal tu fioristi un dí»), è appunto la trascrizione, leggermente modificata, del paragrafo 22 del Socrate delirante:

La tenera Gliceria piú non è – seco perdei tutto quel ch’io potea mai perdere. La sua tomba, è l’unico palmo di terra in questo mondo, ch’io degno di chiamar mio. Nessun altro fuor di me, ne sa il luogo. Io l’ho coperto di folte piante di rose, le quali fioriscono rigogliose al par del suo seno, né in altro luogo tramandano odor sí soave. Ognanno nel mese delle rose fo visita al sacro luogo. – M’assido sulla sua tomba, colgo una rosa, e sto meditando, – tal tu fioristi un dí; prendo a spicciolar la rosa, e ne spargo le foglie sulla sua tomba. – Poscia mi rammento quel dolce sogno della mia gioventú, ed una lacrima che stilla giú sulla sua tomba, appaga l’ombra diletta[15].

Passo che il Foscolo ripresentò cosí nella lezione del 1798:

La tenera Gliceria lasciò su queste mie labbra l’estremo sospiro. Con Gliceria ho perduto tutto quello che poteva mai perdere. La sua fossa è il solo palmo di terra ch’io degni di chiamar mio. Niuno, fuori di me, ne sa il luogo. Io l’ho coperto di folti rosai i quali fioriscono come un giorno fioriva il suo volto, e diffondono l’odore soave che spirava il suo seno. Ogni anno nel mese delle rose io visito il sacro boschetto. Mi assido su quella tomba e... sto meditando: Tal tu fioristi un dí! – Prendo a spicciolare una rosa e ne sparpaglio le foglie... – rammento quel dolce sogno de’ nostri amori: una lagrima stilla su l’erba che spunta sulla sua sepoltura e appaga l’ombra amorosa[16].

Trascrizione-rifacimento (con accentuazioni sentimentali-amorose piú intensamente preromantiche, sin nell’uso sospiroso di puntini ed esclamativi, con maggiore abilità espressiva nella variazione dei sinonimi di «tomba» o nell’aggiustamento piú coerente ed elegante del paragone fra i rosai e la freschezza giovanile di Gliceria) con cui il brano viene assimilato dal Foscolo in una forma che nell’Ortis milanese subí poche variazioni notevoli[17], se si eccettui la logica restituzione del primo accenno alla rosa prima dell’esclamazione elegiaca «Tal tu fioristi un dí!» in cui il passato remoto è cambiato in imperfetto ad allungare l’onda del rimpianto nella ripresentazione struggente di un tempo continuo, lontano e perduto.

Quel brano era diventato parte integrale della lettera e dello sviluppo di situazioni patetiche nel lento attrito di sensibilità e di suggestioni di paesaggio e di letteratura da cui (piú coerentemente nel primo Ortis) la passione si accende; la funzione di quella lettura preromanticamente «galeotta» era insostituibile e quella compiuta elegia (che insieme narrativamente e poeticamente preparava le storie infelici di Olivo e di Lauretta) rappresentava un risultato di prosa poetica che non poteva essere rifiutato o ridotto o ulteriormente assimilato, come avviene di altre versioni poetiche che costellano il primo Ortis e la cui abolizione o riduzione in prosa nasce anche da un bisogno di continuità di prosa, da una maggiore fiducia nella prosa come unico strumento espressivo di fronte ai puntelli poetici espliciti della prima e piú letteraria redazione.

E se l’elegia di Gliceria[18], certo non presa «a caso», ad apertura di libro (ché, come abbiamo visto, essa fu scelta per una precisa funzione nello sviluppo delle «quarantacinque lettere»), rappresenta la piú diretta utilizzazione da parte del Foscolo del romanzetto wielandiano, quella pagina era poi l’esponente piú vistoso di una vena patetico-virtuosa che intenerisce, nel Socrate delirante, soprattutto la storia della fanciulla amata da Diogene, di cui il brano riportato era il finale piú commosso, e che, piú facilmente disposta ad aperture sentimentali e a scene paesistico-patetiche, poté contribuire a rafforzare nella composizione dell’Ortis 1798 quella intonazione di storia di «anime belle» (se pur piú tesa verso una accentuazione romantica di passione): a cui si adeguano il personaggio di Teresa e quello dello stesso Jacopo nel suo impasto di nuclei personali piú profondi e disperati (attacco per la personificazione piú drammatica del secondo Ortis), di teorizzatore di esperienze dolorose e brucianti (il nucleo di Zibaldone ortisiano disposto in forma di vicenda entro una situazione sempre piú storicamente determinata e di approfondimento pessimistico che poi piú saldamente si svolgerà, coerentemente al ritmo drammatico e alla nuova ricchezza di esperienza di crisi personale e storica della redazione del 1802) e di giovane preromantico, allievo del patetismo lacrimoso, nella gamma di varia tensione degli esempi della Clarissa, dell’Amalia, del Paul et Virginie, della Nouvelle Héloïse, del Werther, e, per certi aspetti, dello stesso romanzo wielandiano.

Questo infatti svolge, nella sua prima parte, il tema dell’«anima bella», di cui Glycerion è l’incarnazione e l’esempio piú efficace, perché piú ingenuo e spontaneo, coerentemente alla impostazione del Diogene wielandiano, nella sua ripresa e discussione di temi rousseauiani, nella sua esaltazione di una saggezza anticonvenzionale e naturale con cui l’individuo reagisce ad una «società» ipocrita e artificiosa. Quell’ideale dell’«anima bella» (con i suoi precedenti romanzeschi e drammatici e melodrammatici, fra il romanzo cavalleresco-cortigiano tipo Scudéry, la sublime tensione della Bérénice raciniana, gli esempi variamente efficaci del melodramma metastasiano e zeniano, e le nuove versioni, in un crescendo di naturalezza e passione, dei romanzi sentimentali inglesi e francesi) è fortemente presente nell’opera del Wieland, il quale lo esalterà piú tardi, nelle forme di un istintivo e sublime altruismo, nella risposta al quesito della sua rivista «Der Teutsche Merkur»[19], Was ist eine schöne Seele, riprendendo, a piú alto livello, elementi di questa tematica da lui già provati in forme eroico-aristocratiche, soprattutto nel Cyrus del 1759. Ma nel Socrate delirante quel tema aveva trovato una realizzazione piú viva e media, in una dimensione piú borghese e moderna, in una storia piú comune e dimessa, in cui la storia di Glycerion, povera fanciulla di strada, diviene la convalida piú efficace della esistenza reale di «anime belle» (come «vi sono dei bei volti, i quali non dovendo niente all’arte, ne sono appunto tanto piú belli»[20]) al di fuori di ogni educazione e di ogni distinzione sociale.

Questo tema dell’«anima bella», offerto cosí chiaramente dal Wieland, ben rientra fra le suggestioni presenti nella tensione culturale ed etico-letteraria da cui matura il primo Ortis, specie per quel che riguarda la figura della prima Teresa, tanto piú carica della seconda di elementi e riflessi di gusto e di costume tardosettecentesco, tanto piú disposta in forme romanzesche, tra virtuose, patetiche e borghesi in cui l’anima «bella» e «sensibile» vive di generosa abbondanza di affetti altruistici (per Odoardo, Jacopo, la figlioletta, il padre, il vecchio marito morto), cosí diversamente dalla tanto diversa tensione appassionata della nuova Teresa «infelice», immediatamente individuata nella vicinanza a Jacopo e nel disprezzo per Odoardo[21].

Mentre, nella consonanza di una medietà di affetti piú patetici che appassionati e di sfondi paesistici piú pittoreschi ed edonistici (il clima medio piú idillico-patetico del primo Ortis che in parte frena e snatura la tensione nuova che anima i nuclei piú originali della meditazione e della vicenda drammatica di Jacopo), il Socrate delirante (componendo le sue suggestioni con quelle di tanti altri testi settecenteschi, dei cui elementi quel libro era già a sua volta spesso mediatore) poté interessare il Foscolo nella impostazione di scene paesistiche idilliche, come incontro individuo-natura in forme di accordo distensivo e sentimentale che serba forti tracce di gusto miniaturistico rococò: alla cui eliminazione o al cui riassorbimento entro una migliore gradazione paesistico-sentimentale molto si affaticò il Foscolo dell’Ortis milanese[22].

Si veda in proposito nel Socrate delirante questo quadretto di estatico e voluttuoso abbandono al riposo campestre:

Per adesso... servami di sofà, in questi sereni giorni di estate, il verdeggiante prato, rivestito di molli erbette e di fiori, ed un cipresso sparga ombre sane d’intorno a me! Quivi respiro il refrigerante alito della natura, la volta del cielo è il mio tetto, e mentre cosí sdraiato riposo, e il mio sguardo nelle immense profondità di quello si spazia, l’animo mio è al par di lui aperto, tranquillo e sereno[23];

o, pensando proprio all’impostazione della scena del laghetto e dei cinque fonticelli, cosí centrale nella prima parte dell’Ortis bolognese, questa descrizione rococò-classicistica:

Questo poi è un luogo veramente poetico! – Quest’alto rosaio carico di rose sbocciate di fresco, oh con quanta amenità s’inchina sopra di me! Quanto piacevolmente questo ruscello, rumoreggiante al fianco mio, sen corre sulle minute ghiaie! come piano e molle è quest’ameno prato! quanto vivo il suo verde, quanto folta l’erbetta! Avrei da rimproverarmi se avessi ricercato ad arte un sito tanto voluttuoso. Quale incantesimo celasi mai nella semplice natura! – Diogene stesso, di non poetica fantasia, ne vien riscaldato. – Vedo, sí, io vedo le Grazie; coronate di rose, esse intrecciano su questo delizioso prato i loro balli amichevoli, eccetera[24].

Naturalmente non occorrerà insistere sui modi originali con cui, anche in questa fase e direzione piú letteraria e di moda, il Foscolo già si distingue da questi modelli tardosettecenteschi, né occorrerà ugualmente ricordare come sarebbe errato far del romanzetto wielandiano piú che una delle letture sollecitanti entrate nell’attenzione feconda dello scrittore dell’Ortis bolognese, mentre d’altra parte questi raffronti e questa indicazione generale della lettura foscoliana del Socrate delirante possono servire a meglio delimitare la zona culturale e letteraria dell’Ortis 1798 rispetto a quella dell’Ortis 1802, in cui le tracce di gusto piú rococò e di sentimentalismo idillico-elegiaco sono tanto minori.

Ma in un’altra direzione del primo Ortis (assai singolare, anche se centralmente raccordata al tema di contrasto passione-ragione) il Socrate delirante venne ad offrire al Foscolo un chiaro stimolo e lo schema di una situazione e di una scena e sin precisi elementi testuali inseriti nella pagina ortisiana: nella direzione di una stilizzazione ironica esercitata su di un mondo frivolo ed elegante che tenta l’animo di Jacopo e lo fa reagire insieme ad una seduzione sensuale e agli incoraggiamenti di una saggezza edonistica che gli indica contemporaneamente il rischio e la vocazione dolorosa della passione per la bellezza celeste, in un primo intreccio tra fede nella passione e autocontrollo ironico.

Si tratta, come si sarà già compreso, della lettera padovana dell’11 dicembre (XVII del primo Ortis) che ha sempre attirato l’interesse degli studiosi per la sua singolarità, per il suo tono di tipo sterniano, per la sua anticipazione di una maturità di stile ironico da Sesto tomo dell’io[25], per quel carattere di esercizio di «bello stile» rilevato dal Foscolo, che nel passarla sostanzialmente intatta entro il contesto piú drammatico dell’Ortis milanese (né fu piú cambiata, se non per alcuni particolari, nelle edizioni del ’16 e del ’17) la siglò appunto con la qualifica di una volontà stilistica particolare: «T’accorgerai che questa lettera è copiata e ricopiata[26] perch’io ho voluto sfoggiare lo bello stile». E nella Notizia bibliografica egli citava quella lettera (di cui pure teneva ad assicurare la «veridicità») come esempio di un aspetto del «discorso» dell’Ortis che «benché sia piú conciso, piú vario, piú aspro e piú cupo di quello del Werther, è talvolta piú disteso e tal altra piú facondo. Ma nel primo caso egli era in istato di calma e discorre di una civetta; s’avvede, confessa, e ne ride, d’aver voluto sfoggiare lo bello stile; e pare che gli fosse ispirato dal contegno artificiosamente grandioso di quella dama»[27]. A parte quanto si potrebbe ricavare dal commento della Notizia circa la maniera con cui il Foscolo del secondo Ortis volle sistemare quella lettera nella consapevolezza del personaggio di una esperienza singolare e di una singolare e coerente sua versione letteraria (con il risultato di un’accentuazione della complessità di Jacopo e delle sue capacità espressive e di una giustificazione della singolarità della lettera tanto piú sconcertante nel crescente sviluppo drammatico del nuovo Ortis), è chiaro che lo stesso Foscolo incoraggiava a ricercare la genesi di quella lettera in una piú esplicita volontà di esercizio letterario e stilistico e quindi a recuperarvi riflessi di letture e magari anche di suggestioni direttamente o indirettamente figurative, data la sostanziale dimensione rococò-neoclassica in cui la scena e le figure sono impostate.

In tale direzione ha indagato minuziosamente Ezio Raimondi in un articolo[28], che cercava di accertare la presenza all’attenzione compositiva del Foscolo di iconografie belloriane (con riferimento poi ai ritratti di Teresa nelle lettere XV e XXIX), di temi e moduli della letteratura rococò-illuministica (con l’ipotesi di una polemica foscoliana contro la scrittura arida e razionalistica del racconto francese accertabile nel finale della lettera) e persino, nella ipotesi di un itinerarium neoclassico-barocco, suggestivo per l’ascendenza calcaterriana dello studioso, di precisi innesti di particolari della poesia del Tasso e del Marino: il «cane adulator» o certe figure femminili «pruriginose» dell’Adone, o l’aggettivazione sensuale della donna di origine mariniana e tassesca, e sin la presenza di Senocrate[29] ricondotta ad una scena di seduzione nelle parole sarcastiche di Armida innamorata.

Una sapiente e sottile ricostruzione di assimilazione letteraria e stilistica un po’ a mosaico che allargava però fortemente l’attenzione e il calcolo del giovane Foscolo al di là, mi sembra, dei limiti piú accertabili delle sue pur vaste letture giovanili, fra le quali hanno poi maggior parte quelle di libri contemporanei e magari di traduzioni piú immediatamente offerte al giovane letterato specie dalla editoria veneta attivissima in quel settore. Ché mi par si possa affermare nella formazione giovanile foscoliana una preminente prospettiva «contemporanea» corrispondente alla volontà di affermazione del giovane letterato entro i modi del suo tempo e al bisogno piú profondo di esprimere le sue esigenze personali e storiche attraverso l’assimilazione (e poi il superamento) delle forme piú vive e contemporanee della letteratura e della cultura del suo tempo.

Di ciò può esser conferma appunto il fatto che, al posto di varie delle riprese minute indicate dal Raimondi come intarsiate nella pagina foscoliana e presupponenti un imponente lavoro libresco di letture e di richiami di queste da parte del giovane scrittore, si trova la utilizzazione tanto piú facile e immediata e lo stimolo generale di una pagina di romanzo contemporaneo e cioè del solito Socrate delirante, come può vedersi dal confronto diretto dei due brani nelle loro parti centrali.

Nel Socrate delirante Diogene è ammesso nel salotto di una dama «alla moda» che esercita le sue arti di seduzione (con l’attiva collaborazione di un cagnolino) su di un giovinetto timido e «bennato»:

Essa giaceva piegata alquanto indietro, sopra un piccol trono di guanciali e scherzava, come dissi, col suo cagnolino. Dirimpetto sedeva un giovinetto, del quale la natura prometteva molto, – e che aveva udito da Senocrate, che bisogna chiudere gli occhi, se uno non si sente tanto gagliardo, da affrontare una bella tentazione a occhi aperti. Il giovanetto non aveva coraggio bastante per chiudere affatto i suoi; ma guardò in terra, – ed ivi, per disavventura, gli diede negli occhi un piccol piede, come uno si può figurare il piede d’una Grazia che esce dal bagno, ma scoperto solamente alquanto sopra la noce. Questo non era nulla per voi o per me, ma moltissimo pel giovinetto. Timido e smarrito ritirò gli occhi, guardò la Dama, poi il cagnolino, poscia di nuovo il tappeto su cui posavano i piedi di lei, ma intanto il bel piedino era sparito. Gliene dispiacque. Discorse con voce tremula, – di tutt’altro fuor che di quel ch’ei si sentiva nell’animo; – la Dama accarezzava il suo cagnolino. Il cagnolino reciprocamente le faceva le feste, le tirava colla zampina il fisciú, poi la guardava con un malizioso sorriso –, avrei detto, se i cani potesser sorridere; tirava di nuovo il fisciú, e sprigionava con questo giochetto, – (la Dama appunto considerava una Leda di Patraso, che pendeva dirimpetto alla mano dritta) – la metà d’un seno candidissimo, e tondeggiante d’incanto. – Il giovinetto batteva gli occhi ed ansava. – Il cagnolino stava ritto in grembo alla Dama, insinuava la sua zampina destra dentro al bel seno, e colla bocchina mezz’aperta, espressione di desiderio, guardava in su verso gli occhi di lei. Essa baciò il cagnolino, lo chiamò il suo piccolo adulatore, e gli empí la bocca di chicche. – Al giovinetto non dava piú l’animo di guardare in terra. – Io, pian pianino scapolai[30].

Si rilegga ora la parte centrale della lettera XVII dell’Ortis bolognese:

Giacendo piegata alquanto indietro sopra un piccol trono di guanciali si volgeva con compiacenza al suo cagnuoletto che le si accostava, e fuggiva e correva torcendo il dosso, e scuotendo l’orecchie e la coda. Io mi posi a sedere sopra un angusto soffà avvicinato dalla cameriera, la quale si era già dileguata. Quell’adulatrice bestiuola schiattiva, e mordendole e scompigliandole con le zampine l’estremità della camicia lasciava apparire una gentile pianella di seta rosa-languida, e poco dopo un piccolo piede scoperto fin sopra la noce: un piede, o Lorenzo, simile a quello che l’Albano dipingerebbe rappresentando una Grazia ch’esce dal bagno. O Senocrate se tu non avessi, com’io, veduto Teresa, nell’atteggiamento medesimo, presso un focolare, anch’ella appena balzata di letto cosí negletta, cosí... – chiamandomi a mente quel fortunato mattino mi ricordo che non avrei osato di respirar l’aria che la circondava, e tutti tutti i miei pensieri si univano riverenti e paurosi soltanto per adorarla: – e certo un genio benefico mi presentò l’immagine di Teresa, perch’io non so come, ebbi l’arte di guardare con un rattenuto sorriso or la bella, poi il cagnuolino, e di bel nuovo il tappeto dove posava il bel piede; ma il bel piede era intanto sparito. M’alzai chiedendole perdono se io aveva scelto un’ora importuna e la lasciai quasi pentita, perché di gaja e ridente divenne dispettosa, e... del resto poi non so[31].

E sarà facile concludere che, se la lettera ortisiana si presenta tanto piú ricca della scenetta wielandiana ed ha una parte introduttiva (l’ingresso nel gabinetto della dama e l’apparizione e la descrizione di questa donna-dea in chiave erotico-ironica) che supera per approfondimento psicologico e stilistico la base dell’offerta wielandiana, cosí come nella stessa parte centrale nuovi ed originali sono la unificazione in Jacopo del giovinetto tentato e del saggio Diogene e il contrasto e il chiaroscuro fondamentale e sintomatico fra l’immagine della dama frivola e sensuale e quella di Teresa insieme salvatrice e pericolosa (con elementi di una sottintesa – e poi esplicita nel finale – discussione sul valore esaltante e rischioso della passione di fronte al «ragionevole» invito all’«antiveleno» del piacere), quella lettera si è tuttavia formata nell’utilizzazione anzitutto della pagina del Socrate delirante con le sue offerte di situazione generale di impostazione di scena, di particolari propizi, di moduli stilistici ironici: quasi una scorciatoia tra il Foscolo e il gusto illuministico-rococò ironico e figurativo usufruito (nell’impasto con la lezione piú sottile dello Sterne[32]) per questo esercizio di «bello stile», di controllo ironico di piú esaltate componenti sentimentali in una via che conduce verso gli esperimenti e le meditazioni piú complesse e mature del Sesto tomo dell’io. E se già nella pagina del 1798 il Foscolo eliminò con mano sicura nel suo rifacimento vari particolari troppo leziosi, specie nella descrizione troppo insistita del «giochetto» del cagnolino e della sua animazione erotico-ironica, è chiaro che il passo del Socrate fu la base vicina di cui egli si serví[33] e che in questa vicinanza ad un testo settecentesco si può ulteriormente verificare la posizione del Foscolo 1798, fortemente immerso nella cultura letteraria che immediatamente lo precede e che piú originalmente assimilerà e supererà nello sviluppo cosí intenso negli anni che intercorrono fra Ortis e Ortis. Osservazione che ricondurrebbe, fuori dell’ambito di questa parziale ricerca, a tutta una dinamica ricostruzione del passaggio fra Ortis bolognese e Ortis milanese non tanto, o non solo, in un confronto isolato dei due testi (e ad un semplice studio di stile), quanto in un integrale studio della densa spirale foscoliana che passa attraverso l’Ode del 1800, il Sesto tomo dell’io, i sonetti minori, il carteggio Arese e l’intreccio inseparabile di esperienze politiche, sentimentali, filosofiche, letterarie che confluiscono nello sviluppo della poetica e della poesia foscoliana di quegli anni.

Si potrà infine osservare, senza voler estendere la ricerca all’individuazione di troppo minute tracce wielandiane e senza voler forzare eccessivamente l’importanza della lettura foscoliana del Socrate delirante, che suggestioni ed elementi di stimolo e di appoggio derivati dal romanzetto del Wieland appaiono anche nel rapporto tra la figura e certi atteggiamenti di Diogene e la figura e atteggiamenti di Jacopo cosí come si possono cogliere nella redazione ortisiana del 1798.

Cosí, ben tenendo conto della diversa complessità dei due personaggi e della loro centrale impostazione – e della diversa novità di Jacopo in relazione ad una cosí diversa profondità di animo, di fantasia, di storica pienezza del Foscolo anche nella fase 1798 –, la figura del Diogene wielandiano poteva concorrere a rafforzare certe componenti della figura di Jacopo, come l’amore per la natura e per la sincerità assoluta, e la sua autodefinizione di singolarità e magari di stravaganza rispetto al metro ironizzato di una società convenzionale, ipocrita, spietatamente utilitaristica e bassamente ragionevole, che nelle «quarantacinque lettere» si precisano soprattutto nella negativa esperienza dell’ambiente padovano e dell’incontro di Jacopo con la coppia della donna amata da Olivo e del suo marito: in una situazione assai vicina, in termini generali, a quella di Diogene nella società con cui viene a polemico contatto e quindi collegata alla scena di seduzione della lettera XVII. Cosí consuona con la figura di Diogene «singolare» e «singolarista», quale appare ai signori e alle signore del bel mondo corinzio, la definizione che Jacopo dà di se stesso in rapporto alla considerazione che possono avere di lui i benpensanti come «uomo singolare e stravagante fors’anche» (nella postilla alla lettera XVII). E (nella lettera XVIII) la contrapposizione di se stesso che ha «la generosità o di’ pure la sfrontatezza di presentarsi nudo, e quasi come la natura lo ha fatto» e della «turba cerimoniosa e maligna» consuona con varie autodefinizioni di Diogene e con la fondamentale impostazione di contrasto fra questo e la società filistea.

Impostazione wielandiana che, con l’elogio della «povertà-indipendenza» e della schiettezza e umanità di chi non possiede e con l’inerente attacco ai ricchi egoisti e disumani, viene ad alimentare, in modi tanto piú ironici e sottili rispetto allo slancio foscoliano apertamente sdegnoso[34], quella direzione di denuncia e protesta di Jacopo contro l’egoismo e l’insensibilità dei ricchi e dei fortunati, che andrebbe meglio misurata nella diagnosi dell’Ortis tutt’altro che privo appunto di elementi di denuncia e protesta anche sociale che trovan poi svolgimento tanto piú ampio e appassionato nell’Ortis milanese: in una direzione che non ha sbocco preciso, ma che concorre a muovere piú drammaticamente la situazione pessimistica ortisiana, a far dell’Ortis un libro anche di protesta e di crisi irrequietamente articolata in forma di esperienza e di sofferenza personale e storica, in uno sviluppo di vicende ed esperienze delusive e di inerente approfondimento di conclusioni pessimistiche sempre piú profondamente accordati nell’Ortis milanese. In tal direzione il Diogene wielandiano portava al giovane Foscolo, in una posizione di rafforzo e di sottile ripensamento di motivi rousseauiani, fermenti critici e polemici illuministici e preromantici.

Mentre poi la figura di quel Diogene vero saggio «bizzarro sí, ma fine e decente derisore delle umane sciocchezze», quel Diogene «il quale non è poi tanto pazzo quanto i signori e le signore del Craneo si compiacciono di inferire da qualche tratto del suo modo di parlare»[35], e dunque solo per giudizio convenzionale e filisteo pazzo e misantropo, sarà ben stato presente, come incarnazione piú moderna (e ricca di riferimenti moderni) di una saggezza eterna nel dialogo difficile fra cuore e intelletto, nella creazione del personaggio di Diogene del Sesto tomo dell’io.

Ché, senza entrare qui nella discussione sul preciso riferimento del Diogene foscoliano ad un personaggio storico, il Lomonaco, o sulla sua simbolizzazione del filosofo cinico specie attraverso il ritratto fattone da Diogene Laerzio[36], mi par da sottolineare il fatto che comunque quella complessa figura di saggio e specie la sua caratteristica di «cosmopolita» poterono alimentarsi anche della suggestione del Diogene del romanzetto wielandiano cosí presente, come abbiamo visto, al Foscolo di quegli anni.

Il Diogene del Socrate delirante era infatti portavoce esemplare del tema del Weltbürger, del cittadino del mondo, del cosmopolita, che è poi tema centrale della attiva meditazione wielandiana[37] e costituisce uno dei caratteri fondamentali della saggezza diogenea-illuministica nel romanzetto del Wieland. In questo molteplici sono le dichiarazioni di fede cosmopolitica del protagonista, il quale, a chi gli oppone che Sinope, la sua «patria», ha un diritto di preferenza ai suoi servigi, risponde:

Lo stesso appunto che Babilonia e Cartagine. Tostoché la Natura volle già ch’io fossi partorito, bisognava ch’io lo fossi in qualche luogo; il luogo stesso poi ne rimase indifferente;

e definisce il cosmopolita:

un uomo come me – il quale senz’essere in una corrispondenza speciale con quale si sia società particolare, riguarda la terra intera per sua patria, e tutte le creature della sua specie senza riguardo alle differenze accidentali, che formano tra loro la situazione, il clima, il modo di vivere, il linguaggio, i costumi, la polizia, e gli interessi privati, per suoi concittadini o piuttosto per suoi fratelli[38].

Che sembrano un po’ le ragioni, l’illustrazione della verità e della saggezza del cosmopolitismo e che nel frammento del Sesto tomo dell’io vengono presupposte e a cui Lorenzo reagisce con la sua sconsolata amarezza, con il consenso della mente ed il dissenso del cuore, in una posizione cosí profondamente foscoliana (del Foscolo meno eloquente e piú intimo) che ritornerà tante volte a presentarsi con diverse accentuazioni e sfumature: come nelle bellissime lettere del 1813-1814 quando la decisione dell’esilio per amor di patria (e prima la decisione di rientrare nell’esercito del regno italico) matura nel clima profondo e malinconico di un dissenso fra la ragione (fra scettico-egoistica e cosmopolitica) e il cuore e l’animo che non possono rinunciare alla passione patriottica, al fascino della Dulcinea-Italia[39].

Il ricordo delle pagine wielandiane con la giustificazione del cosmopolitismo come saggezza e con l’appoggio di tutta una posizione illuministica che appunto in quel libro trovava un’esplicazione, cosí viva e svolta in forma di esperienza e di modo di vita, dové pur confluire nella meditazione foscoliana e nell’abbozzo della complessa figura del suo interlocutore e consigliere non seguito. Cosí come in generale la figura del Diogene wielandiano dové ben entrare, anche se con minor forza, fra gli ideali riferimenti di figure di saggezza e di equilibrio a cui il Foscolo guardò nel suo complesso contrasto fra passione e ragione.

E forse nello sviluppo della meditazione foscoliana sul cosmopolitismo poteron esser nuovi termini di discussione, nuovi stimoli a reagire al tema settecentesco (che proprio Wieland aveva contribuito, nei suoi romanzi archeologico-filosofici[40], a rafforzare, nella loro urgenza moderna, con l’esemplarità della filosofia classica e proprio degli autori piú anticonvenzionali e assimilabili alla dimensione razionalnaturale settecentesca) altre pagine wielandiane, lette dopo l’Ortis, come almen quelle dell’Aristippo (pubblicato nel 1801 e tradotto in italiano dall’Arcontini nel 1809, dopo una traduzione francese del Coiffier del 1802[41]) in cui il protagonista afferma:

Ella mi fé [la Natura] per essere uomo, non cittadino, ma perché io fossi uomo, da qualcuno era ben forza che io avessi ad esser generato, e in qualche luogo doveva io esser nato. Volle il destino che ciò accadesse a Cirene e d’un cittadino cireneo... Per ciò che spetta a me stesso personalmente io contemplo la mia umanità o (ciò ch’è lo stesso) la mia condizione di cosmopolita, come il mio massimo, il mio tutto[42].

E il Foscolo in una lettera del 19 ottobre 1813 al Giovio:

Se non che non ho mai potuto fra gli elementi che la compongono [la forza d’animo] mescolarvi neppure un’unica dramma di filosofia cosmopolitica. Aristippo diceva: nessuna terra m’è patria; Socrate meglio: ogni terra m’è patria; ma il meglio è nelle nude parole. Per me mi credo creato abitatore d’un solo spazio di terra e concittadino di un numero determinato d’altri mortali; e s’io non ho patria, l’anima mia cade avvilita[43].

Ed anche a questo proposito, non volendo identificare certo l’Aristippo qui accennato solo con il personaggio wielandiano[44], si potrà però dire che la nuova presentazione dei filosofi antichi cosmopolitici fatta dal Wieland dava ai riferimenti foscoliani una nuova giustificazione, entro una dimensione di discussione antico-moderna, il cui termine piú vivo ed attivo era quello rappresentato dalla versione moderna, illuministica del cosmopolitismo, con cui piú sostanzialmente il Foscolo discuteva e polemizzava.

In conclusione, se ho creduto opportuno indicare anche possibili riflessi del Socrate delirante (e, piú tardi, dell’Aristippo soprattutto nella direzione della discussione sul cosmopolitismo) nell’opera foscoliana anche fuori del primo Ortis (e naturalmente ho avuto presente, ma senza esito apprezzabile, tutte le opere wielandiane che furono tradotte in italiano e in francese e che quindi il Foscolo avrebbe potuto leggere), rimane evidente che Wieland fu per il Foscolo soprattutto un’esperienza limitata al Socrate delirante in relazione al primo Ortis, e che questa fruttò alcune precise utilizzazioni in forma di inserimento quasi materiale o di appoggio di uno schema di scena nell’Ortis 1798, in cui piú generalmente certi elementi del romanzetto wielandiano (tema dell’anima bella, satira e denuncia ironica della società filistea e frivola, gusto patetico del paesaggio in forme piú rococò) e una generale lezione di tecnica narrativa vennero poi a confluire, con diversa consistenza e autonomia, nella complessa genesi della prima e interrotta redazione ortisiana, insieme a molte altre suggestioni e offerte della letteratura settecentesca[45]. Sicché questa ricerca piú legittimamente ricondurrebbe ad una vasta ed unitaria ricostruzione della cultura foscoliana all’altezza dell’Ortis 1798 e quindi naturalmente (al di là dei vecchi studi di fonti) alla identificazione della poetica (e dei suoi limiti di chiarezza e profondità) che presiede alla costruzione del romanzo interrotto. Questa ricerca parziale porta comunque a confermare la ricchezza e la dimensione soprattutto contemporanea delle giovanili letture foscoliane, il vivo rapporto del Foscolo del primo Ortis con la letteratura settecentesca, specie nella zona avanzata fra illuminismo, preromanticismo e neoclassicismo, rispetto alla quale (e non si dice qui come collegata con tutta una lunga esperienza già utilizzata nell’opera dell’adolescente) il primo Ortis precisa, a parte ogni altra considerazione particolare già fatta, il suo aspetto di libro estremamente «contemporaneo», delineatosi nella sua prepotente spinta personale attraverso un vivo e complesso impegno nel proprio tempo culturale, filosofico, letterario. Anche se poi di fronte all’Ortis 1802, tanto piú personalmente sicuro e originale e ricco di nuove congeniali esperienze, piú forti e palesi nelle «quarantacinque lettere» sono le tracce di una assimilazione ancora non ben filtrata e interamente personalizzata (e a volte un po’ frettolosa), cosí come in genere i motivi ortisiani originali piú profondi vi sono ancora involti e spesso attenuati da una intonazione meno sicura, piú idillico-elegiaca, piú sentimentale o piú letteraria.


1 E spesso viziata, nel periodo degli studi positivistici, dalla ricerca della «vera» fonte dell’Ortis o dei «debiti» e «plagi» del Foscolo, o troppo divisa fra interessi di pensiero e di gusto non debitamente unificati in una ricerca centrale di formazione culturale-letteraria del Foscolo, di «poetica» nel senso pregnante e risolutivo che si può e deve dare a questa parola.

2 Se si esclude l’identificazione di una ripresa ortisiana dalla traduzione bertoliana dell’ode Sopra la presenza di Dio (in A. Bertola, Idea della bella letteratura alemanna, Lucca 1784, I, p. 245) che svolge in direzione pessimistico-materialistica una osservazione pia (l’ode è del periodo svizzero-pietistico del Wieland) sulla piccolezza dell’uomo «anello nella catena sterminata dell’universo». Si veda il commento dell’Ortis di E. Bottasso, nel volume Poesie e prose di U. Foscolo, Torino 1948, p. 302.

3 F. Sengle, Wieland, Stuttgart 1949. Libro molto ricco e minutamente attento a ricostruire le molteplici fasi dell’esperienza wielandiana, e animato da una polemica, del resto assai interessante anche «attualmente», con la svalutazione o il disinteresse della storiografia tedesca di origine romantico-nazionalista per un autore sentito poco «tedesco», troppo europeo (o addirittura Französling) e illuministico (e Lukács avverte in proposito, nella sua Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento ad oggi, Torino 1956, p. 35: «Il tipo di illuminista normale, in armonia con se stesso e con l’esterno, che è tanto diffuso in Francia e in Inghilterra, in Germania è una vera rarità. Tra le figure di primo piano gli si avvicina solo Wieland»): donde però risulta sia un’eccessiva frammentazione del giudizio generale sia una minore attenzione ai limiti della forza poetica dell’autore.

4 Del Cesarotti si veda il giudizio ammirativo dell’Aristippo, trovato superiore al Voyage d’Anacharsis (lettera al Rizzo, 1805, in Cesarotti, Opere, Pisa 1813, XXXVIII, p. 213: «romanzo in lettere pieno di grazia, di spirito, di erudizione istruttiva e dilettevole. L’autore eseguisce egregiamente ciò che avrei desiderato di ritrovare in Anacarsi»); del Pilati la recensione della Storia d’Agatone nel «Giornale letterario», Coira 1760, III, pp. 82-132. La posizione del Pilati è piú impegnativa da un punto di vista ideologico-morale rispetto all’attenzione prevalente dei letterati italiani per lo scrittore tedesco in sede di sensibilità e di arte.

5 Il passo, già indicato da V. Santoli nella sua Storia della letteratura tedesca, Torino 1955, p. 120, è un’aggiunta, 30 agosto 1822, al pensiero del 29 agosto (Zibaldone, ed. Flora, vol. II, pp. 7-8) che tratta dei Tedeschi che «poetano filosofando» a cui nuoce la stessa loro profondità, all’opposto dei Francesi che, pur cosí «leggieri e volages per natura e per abito», conoscono meglio «l’uomo effettivo e la realtà delle cose». L’aggiunta volle ulteriormente chiarire e rettificare il pensiero leopardiano con l’esempio di una possibilità dei Tedeschi meno profondi e meno astratti (una specie di implicita indicazione di una fruttuosa educazione illuministico-francese per i Tedeschi del Settecento?) appunto ritrovata in Wieland filosofo-romanziere. A parte un generale rilievo sull’interesse che può avere questa attenzione leopardiana al Wieland e al suo modo di filosofare «artistico» specie in relazione alla preparazione letteraria delle Operette morali, si potrebbero segnalare, sempre in funzione delle Operette, e a rinforzo moderno di suggestioni lucianesche, i Göttergespräche nella versione italiana di G. Grassi (Vienna 1794) e specie il Dialogo fra Giove ed Ercole, il quale irride alle pretese degli uomini circa la cura che gli dei dovrebbero prendersi di loro in un mondo che essi credono fatto solo per loro: «È un pezzo che ardo di sapere (dice Ercole a Giove) se sia vero quello che i buoni uomiccioli di là basso si danno a credere, che tu prendi una parte cosí intima alla esistenza loro, che non risparmi di vegliare a tutti i loro altari e di tenere un registro esatto di tutti i loro desideri e di tutte le loro preghiere; insomma che non regoli il mondo che per loro soli» (I, pp. 3-4). E piú sotto: «Bisognerebbe che Giove avesse un gran tempo da perdere per darsi briga delle preghiere che la metà degli uomini fa continuamente contro dell’altra metà, in tutti gli angoli dell’orbe terracqueo. Non è ella una vergogna che ogni babbuino abbia a darsi ad intendere che il re degli Dei e degli uomini non sia lí che per fare costantemente il suo procuratore, il suo agente, il suo mastro di cucina, il suo cantinaio, il suo messaggero, il suo capo ricettore, ed il suo ispettore in ogni cosa?».

6 Se ne può ricavare l’elenco dal volume di J. Steinberger, Bibliographie der Wieland-Übersetzungen, Göttingen 1930. Si veda anche la Storia della letteratura tedesca cit. del Santoli (p. 126), il quale utilizza brani di versioni dell’Arcontini nella sua presentazione storico-critica del Wieland. Lo spunto a questa ricerca mi è venuto proprio da una tesi diretta dal Santoli, nella Facoltà di Magistero di Firenze, sulle traduzioni italiane di Wieland dal titolo Wieland recato in italiano (1766-1835) presentata dalla signorina Hautmann, che qui ringrazio per gli spunti e le notizie ricavate dal suo lavoro privo però di ogni richiamo all’Ortis. La tesi riportava alcuni brani del Socrate delirante, nella traduzione piú avanti citata, e fra questi il passo di Gliceria che ovviamente mi si rivelò coincidente sostanzialmente con quello foscoliano nella lettera XXVI del primo Ortis.

7 Uscí nel 1769-1774 e fu poi ripubblicato nel 1795 col titolo di Nachlass des Diogenes von Sinope.

8 Nella prefazione, piuttosto contorta, risulta che la versione fu opera della collaborazione (in realtà molto felice) fra un conoscitore del tedesco e «un nazionale ignaro affatto del tedesco». M. Parenti (in Dizionario dei luoghi di stampa falsi inventati o supposti, Firenze 1951, p. 57) suggerisce l’ipotesi che il traduttore, «ignaro affatto del tedesco», possa essere stato G. Gozzi. Se tale ipotesi non mi pare sicura, certo la versione è molto vivace (si legga soprattutto la descrizione della utopistica «repubblica di Diogene» che rivela la mano di uno scrittore assai abile), cosí com’è quella del Combabus, novella lucianesca in versi tradotta in prosa, aggiunta nell’edizione veneziana del Socrate, con una premessa assai interessante sul tradurre versi in prosa e sul valore pragmatico delle traduzioni come stimolo a nuovi acquisti culturali e stilistici della letteratura italiana.

9 «Dieser Diogenes ist eines meiner besten Produkte. Ich weiss nicht, ob ich ein besseres in Prosa geliefert habe» (in Sengle, Wieland cit., p. 228).

10 La posizione di Wieland non si identifica con quella rousseauiana (alla fine del libro una piacevolissima descrizione di repubblica ideale fondata sullo stato di natura vien conclusa con queste parole scettiche: «Sie werden in Ewigkeit nicht finden») e, del resto, nella vasta tematica illuministica lo scrittore tedesco si distingue per una propria tendenza borghese-aristocratica, fra individualismo saggio e società di élite. Per una migliore identificazione di aspetti dell’«illuminismo» wielandiano indicherei la risposta al quesito Was ist Aufklärung nel suo Teutsche Merkur (1789, II, pp. 94-105) che il Sengle non calcola e che mi par molto notevole per una versione di un illuminismo tanto meno profondo, ma tanto piú pratico e «socievole» di quello delineato dalla celebre risposta di Kant. Nella ironia alacre ed elegante di quella risposta ritorna l’ironia anticonvenzionale della polemica del Socrate.

11 L’editore della versione italiana appare partecipe alla polemica anti-pregiudizio del libro wielandiano e di questo accentua, insieme alle «particolarità interessanti del regno de’ sentimenti che vi son toccate», «le dovizie delle verità... tra le quali ve ne sono non poche che possono dirsi nuove, mentreché combattono pregiudizi... la cui crisi è ancora a venire, e dei quali il lume della filosofia affretta l’eccidio...». Insomma la versione italiana appare presentata alla luce anche di chiari interessi morali illuministici, mentre piú tardi altre versioni sono piuttosto presentate secondo un prevalente interesse di gusto e di costume sentimentale. Si veda ad esempio la prefazione di Girolamo Agatopisto alla sua traduzione del Menandro e Glicera (Venezia 1806) che punta sul Wieland «anatomico del cuore umano» e sul poeta delle grazie.

12 V. il mio Foscolo e la critica, Firenze 19675, pp. 6-7.

13 Vi sono elencati il Werther, l’Amalia, la Virginia e la Clarissa. Per quel che riguarda l’Amalia (ricordata anche nel Piano di studi, accanto al Telemaco e alla Nouvelle Héloïse, come Amalie), si dovrà precisare che si tratta della versione francese (Amélie) del romanzo sentimentale del Fielding, Amelia Booth. Esso era stato tradotto integralmente in francese (Genève 1781), ma probabilmente il Foscolo lesse il piú noto rifacimento di Madame Riccoboni, che il traduttore dell’edizione ginevrina giudicava troppo ridotto a «un joli roman françois» e che pur manteneva l’essenziale schema avventuroso-sentimentale e l’impostazione della protagonista come altruistica «anima bella», propizia dunque ad offrire elementi di suggestione congeniale nella costruzione della prima Teresa.

14 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di N. Vaccalluzzo, Catania 1927, p. LXXII dell’introduzione. V. Rossi (Sull’Ortis del Foscolo, in Scritti di critica letteraria, Firenze 1930, III, p. 330) parla solo di «un certo libretto da cui il Foscolo aveva trascritto la breve elegia di Gliceria».

15 Socrate delirante cit., p. 64.

16 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Gambarin, Firenze 1955 (Ed. Naz., vol. IV), p. 40.

17 «Fragranza» per «odore», «siedo su quel cumulo di terra che serba le sue ossa» per «m’assido su quella tomba», «cade» per «stilla»; e l’inserzione, fra «Quel dolce sogno de’ nostri amori» e «una lagrima ecc.», di una invocazione che intensifica lo slancio nostalgico: «O mia Gliceria, ove sei tu?». Nessun cambiamento fu apportato nell’ed. 1816, e nella ed. 1817 fu solo eliminato il primo esclamativo e abolito il «sua» prima di «sepoltura».

18 Quell’elegia costituisce anche uno dei passi piú facilmente suggestivi in senso nostalgico-sepolcrale di tutto l’Ortis (anche se poi dei piú legati alla «moda» e ad una letteratura piú facilmente diffusa e meno originalmente nuova) e si può verificare la sua facilità di effetti su lettori medi, nella lettera del sergente francese F. Herbel che, nel leggere e nel tradurre l’Ortis, proprio su quel passo fermava la sua attenzione e il suo consenso sentimentale («L’episodio della morte di Gliceria mi ha fatto piangere ecc.», nell’Epistolario del Foscolo, Ed. Naz., vol. III, p. 576).

19 I (1774), pp. 310-321.

20 Socrate delirante cit., p. 43.

21 Lo stesso Odoardo (e si veda in proposito il saggio di C. Grabher, La figura d’Odoardo e un motivo fondamentale dell’«Ortis», in Interpretazioni foscoliane, Firenze 1948) nell’Ortis bolognese è presentato in una iniziale luce di simpatia, pieno di sensibilità, di amore per l’arte (anche se con qualche difetto di pedanteria e troppo fiducioso nel perfezionamento neoclassico della natura), sí che la passione di Jacopo per Teresa si accende lentamente anche nell’ambigua sollecitazione della sentimentalissima preparazione di addio fra Odoardo e Teresa, anime «belle» e «sensibili» in quella prima parte della lettera X che venne poi tagliata interamente nell’Ortis milanese, in cui ogni luce di sensibilità e di generosità viene spenta in Odoardo posto in netto contrasto con Teresa e Jacopo.

22 Come caso esemplare del generale lavoro foscoliano nel secondo Ortis, volto ad eliminare forme di gusto rococò in relazione ad un nuovo rafforzamento di una poesia romantico-neoclassica e all’inerente tensione sentimentale-figurativa dell’immagine centrale di Teresa, si pensi alla lettera XV, 31 novembre, e alla corrispondente del 3 dicembre dell’Ortis milanese (pp. 26-27 e 155-156 dell’ed. cit. delle Ultime lettere di Jacopo Ortis), in cui molto significativo è il rifacimento con l’abolizione di particolari troppo edonistico-pittorici di gusto rococò discordanti dall’alto tono di estasi amorosa, dalla tensione spirituale poetica di cui è centro la figura di Teresa all’arpa. La descrizione culminava (nel 1798) nella contemplazione edonistica del piede «semirapito dalla veste e da uno scarpino color di giacinto» di fronte al quale lo scrittore concludeva: «io mi sentiva una certa delizia nel contemplarlo». Nell’Ortis milanese l’accenno al piede venne ridotto al minimo e ricondotto entro la descrizione generale della bellezza di Teresa alla quale vien riferita, con una introduzione esaltante appunto l’armonica bellezza della donna amata, la conclusione di prima: «tutto, tutto era armonia: ed io mi sentiva una certa delizia nel contemplarla». Anche se con una traccia evidente di sutura mal riuscita (e simili suture non mancano nel rapporto fra il vecchio e il nuovo testo della prima parte dell’Ortis) fra la nuova figurazione e la conclusione in cui quella «certa delizia» si addiceva tanto piú facilmente alla contemplazione edonistica del piede «semirapito dalla veste e da uno scarpino color di giacinto». Il particolare del piede «semirapito dalla veste» poté essere suggerito, come quello del piede della dama della quasi contigua lettera XVII, dal modello rococò del Wieland. Il quale, tra l’altro, aveva già insistito sul fascino di un bel piede femminile proprio se in parte nascosto, in Psyche, che il Foscolo poteva conoscere nella versione del suo diletto Bertola (in Poesie diverse tradotte dall’alemanno e pubblicate per le faustissime nozze de’ nobilissimi signori conte Francesco Piccolomini e Contessa Francesca Bertozzi, Napoli 1777): «Wie hatte Vater Zeus vor diesem Fuss geknieet, / der halb versteckt, nur desto mehr verführt».

23 Socrate delirante cit., p. 16.

24 Ibid., p. 33. La figurazione delle Grazie è frequente nelle opere del Wieland ed egli fu noto spesso soprattutto come poeta e filosofo delle Grazie, fra colorito rococò e neoclassicismo e in un intreccio del tema della grazia e delle grazie e dell’anima bella, dell’edonismo sensibile e di valori intimi e civili di pudore, compostezza, gentilezza. Ma gli elementi wielandiani in tal direzione son meno frequenti nel Socrate delirante e si confondono tanto con le tendenze di Kleinkunst rococò (tipo Stolberg: e si ricordi di questo nella versione del Bertola la poesia Alle Grazie, con l’avvio foscoliano: «Sacerdotessa fatela / della bell’ara vostra») e con quelle di ascendenza winckelmanniana, ché inutile sarebbe ricercare in Wieland (fra Musarion, Die Grazien ecc.) precisi stimoli diretti per il Foscolo: e alla fine lo stesso equilibrio graziesco del Wieland (Gleichgewicht zwischen Enthusiasmus und Kaltsinnigkeit), il suo Mass (che pur presuppone le prime ondate della Empfindsamkeit sensistica e certi stimoli dello Sturm und Drang) hanno un diverso margine di razionalistica mediocritas e d’altra parte potevano essere ben surrogati da altre meditazioni estetico-etiche settecentesche piú facilmente a disposizione del Foscolo.

25 Il Goffis la considera addirittura un «fuor d’opera nell’Ortis» e primo nucleo del frammento A Psiche, come la XVIII lo sarebbe dell’Argomento del Sesto tomo dell’io (Il Sesto tomo e la formazione letteraria del Foscolo, in Studi foscoliani, Firenze 1958, pp. 110-112).

26 Solo «la è ricopiata» nell’ed. 1817.

27 Ultime lettere di Jacopo Ortis cit., pp. 483-484 e 496-497.

28 E. Raimondi, Un episodio dell’«Ortis» e «lo bello stile», in «Giornale storico della letteratura italiana», LXX (1953), pp. 351 e ss.

29 L’accenno a Senocrate scomparve nell’Ortis milanese, in un alleggerimento di richiami piú retorici e in una disposizione nuova del discorso rivolto a Lorenzo in cui cade naturalmente il riferimento ironico diretto a Senocrate circa la difficoltà di resistere alla tentazione sensuale senza il confronto con una bellezza superiore celeste.

30 Socrate delirante cit., pp. 17-19. Simili scene di seduzione sono frequenti nei romanzi del Wieland (e per lo piú costituiscono una specie di test fondamentale per la virtú dei suoi eroi e insieme per la loro umana debolezza). E cosí si ricordino almeno nella Storia d’Agatone (che il Foscolo poteva aver letto nelle traduzioni francesi del Fresnais, 1768, o del Bernard, 1777) le replicate variazioni di questa scena tematica edonistico-virtuosa: nel vol. III (trad. Fresnais) le pp. 45 e 74-75 con il ritratto a contrasto della tentatrice Pizia e di Psiche, l’«anima bella», o, nel vol. II, le pp. 120-128, con la scena di Danae dormente e di Agatone che non osa baciarla in una situazione assai vicina a quella della lettera XXIX dell’Ortis (con Jacopo preso fra desiderio e reverenza di fronte a Teresa dormente).

31 Ultime lettere di Jacopo Ortis cit., pp. 29-30.

32 Al di là della stessa lezione sterniana già presente nella prosa wielandiana: e il Wieland guardò molto a Sterne che egli chiama nel poemetto Die Grazien il «mio Sterne», e che è compreso nella lista dei creditori di Wieland (insieme a Luciano, Fielding, Bayle, Voltaire, Crébillon, Hamilton, Orazio, Ariosto, Cervantes «e molti altri») in quella Citatio creditalis che l’Athenäum (1799, II) gettò in faccia al vecchio poeta.

33 Cadono cosí parecchie delle ipotesi del citato articolo del Raimondi. Donde anche un generale avvertimento di cautela in certe ricerche che a volte finiscono per presupporre nei poeti studiati un’attenzione minuziosa e una riserva indeterminata di immagini e temi della letteratura precedente (trasformata a volte in una specie di assoluto vocabolario tematico-stilistico) che è spesso piú del critico che non del poeta stesso.

34 Si legga, ad esempio, la p. 39 del Socrate delirante in cui allo sdegno succede in Diogene una ironica compassione per i ricchi: «Li compiansi, conciossiaché quello appunto che dovrebbe renderli felici, li rende insensibili al divino piacere di far del bene. Povera gente! hanno tanti bisogni! i loro sensi, la loro fantasia, le loro bizzarrie, i loro comodi, la loro vanità, trovano tanto da pretendere da loro, che nulla avanza ad essi per le pretensioni dell’umanità».

35 Socrate delirante cit., pp. XVI e 14. E un’eco di tali definizioni potrebbe avvertirsi in quanto si dice di Diogene («buon vecchio» come è detto da Alessandro nel Socrate, p. 175) nel Sesto tomo dell’io (in Prore varie d’arte, a cura di M. Fubini, p. 9): «il quale non è poi, come si pretende, l’uomo il piú villano del mondo».

36 Le note tesi del Fubini e del Goffis. Comunque si può osservare che alla eventuale intera accettazione della tesi del Fubini osta particolarmente proprio la difficoltà di attribuire al Lomonaco la persuasione cosmopolitica.

37 L’esaltazione del cosmopolitismo da parte di Diogene si precisa poi nel secondo libro degli Abderiten, con l’Orden der Kosmopoliten, come aristocratica élite di spiriti liberi e nella tarda versione massonica della cosmopolitica élite di spiriti liberi e illuministicamente saggi, consapevoli della stoltezza dei piú, avversi alla tirannia e al fanatismo «repubblicano», disposti a collaborare fra loro per il bene generale (come ulteriormente si chiarisce nel Geheimnis der Kosmopolitenordens): versione massonica svolta poi nella complessa figura del Freimaurer-Weltbürger-Theopolit: «ein Mitglied der allumfassenden Stadt Gottes, in welcher Sonnen und Welten nur einzelne Wohnungen, und die zahllosen Classen und Geschlechter aller, mit Vernunft und Freiheit begabter Wesen, nur ebenso viele einzelne Familien ausmachen, die durch ein ewig unwandelbares Grundgesetz in Ein reinharmonisches Ganzes vereinigt sind». Foscolo invece, come Alfieri, fu insieme anticosmopolita e non massone (v. lettera a M. Bignami, Ep., III, pp. 3-4), anche se Alfieri fu da giovane massone, ma poi abbandonò la massoneria e la aggredí violentemente nelle Satire.

38 Socrate delirante cit., p. 122.

39 Fra sottolineature amare della sostanza illusoria della passione di patria («l’amore e la patria, illusioni purtroppo come tutte le umane cose...», al Fabre, Ep., V, p. 14) sua «Dulcinea» (v. lettera al Trechi, ibid., IV, p. 408) e piú decise affermazioni della sua fede nella patria come prima condizione di vita dell’uomo libero («Chi non ha patria, secondo me, non ha nulla sulla terra», alla d’Albany, ibid., V, p. 132), piú volte torna a precisarsi il rifiuto o l’impossibilità della posizione cosmopolitica, come posizione di saggezza indifferente ed egoistica: «Non posso indurmi allo stato d’indifferente cosmopolita» al Trechi (ibid., IV, p. 368); «Solo non mi bastò il cuore di farmi cosmopolita; ed ho ambito al titolo di cittadino, e mi sono obbligato ad un governo perché in esso io vedeva un’ombra di patria dalla quale io sperava un dí o l’altro una patria onorata e reale...», alla d’Albany (ibid., V, p. 50).

40 A proposito del carattere «archeologico» di questi il Sengle (Wieland cit., p. 479) osserva giustamente che i romanzi wielandiani (e specie quelli della gioventú e maturità) mal si possono ridurre a semplici romanzi «antiquari», alimentati come sono da un impegno ideologico e corrispondenti a precisi momenti dell’esperienza personale-sociale dello scrittore tedesco.

41 E, come già dissi, già conosciuto dal Cesarotti nel 1802 (e dunque tanto piú facilmente noto anche al Foscolo, ancora in quell’epoca assai attento alle indicazioni cesarottiane).

42 Aristippo, trad. it., Padova 1809-1810, vol. I, pp. 202-204.

43 Ep., IV, p. 395.

44 Comunque nell’Aristippo wielandiano si svolge una lunga discussione fra Socrate e Aristippo sul tema patria-cosmopoli (v. I, pp. 194-204; VII, p. 57) in cui i due filosofi assumono e svolgono posizioni ben distinte e che potevano fortemente interessare il Foscolo. Una definizione polemica di Diogene di Sinope come cosmopolita si trova nel Voyage du jeune Anacharsis del Barthélemy che (cito dalla versione italiana del 1794, Venezia, II, p. 246) afferma: «Diogene – detto da Platone Socrate delirante – che vantavasi cittadino dell’universo e che non sa esserlo della sua patria».

45 Saranno naturalmente da calcolare fra gli altri particolarmente in tal senso, e per tutta la zona ortisiana, gli studi del Bottasso (Foscolo e Rousseau, Torino 1941), del Goffis (Il sesto tomo e la formazione letteraria del Foscolo cit.) e, per piú generali rapporti e utilizzazioni critiche, la Lettura dell’«Ortis» (Milano 1947) del Fubini.